GIACOMO LEOPARDI
E’ il più grande poeta del Romanticismo italiano, oltreché filosofo, nonostante cresca in un ambiente limitante e arretrato. Nasce infatti nel 1798 a Recanati, nelle Marche, regione che faceva parte dello Stato Pontificio. Suo padre era un conte che amava la cultura e che aveva un’enorme biblioteca; sua madre era molto religiosa, rigida, fredda come il marmo e piuttosto anaffettiva (=non esprimeva affetto). Facendo una severa economia aveva migliorato la situazione finanziaria della famiglia, che non era buona a causa di suo marito che aveva speso male i suoi soldi.
Gli anni giovanili
La vita del giovane Leopardi era piuttosto isolata, perché non poteva giocare con altri bambini, in quanto figlio di nobili.
Il suo carattere affettivo che non trova sfogo, la sua intelligenza e la sua grande immaginazione lo spingono a frequentare la biblioteca del padre e a dedicarsi a quello che lui chiamerà uno “studio matto e disperatissimo”; matto perché oltre i limiti umani, disperatissimo perché nato dall’impossibilità di dedicarsi ad attività fisiche (i suoi non gli facevano fare sport), ad avere relazioni con altri ragazzi, etc. Così già prima dei vent’anni avrà seri problemi alla spina dorsale e agli occhi.
A 12 anni conosceva, oltre ovviamente all’italiano, il greco, il latino, il francese e da solo studiava l’ebraico (era quindi un filologo, cioè un amante e conoscitore della cultura letteraria). Inoltre scrisse dei brevi saggi.
Il suo primo vero amico sarà Pietro Giordani, che crederà in lui come artista e che andrà a Recanati. Giordani porta in carrozza Leopardi per la prima volta a Macerata, dove il ragazzo non era mai stato. Il giovane chiede di nascosto il passaporto per scappare da Recanati, ma viene scoperto e così entra in una crisi profonda.
Non era, come spesso si dice, triste, pessimista e che pensasse solo a studiare. Era generoso, aperto, immaginoso (=fantasioso), disposto alle relazioni affettive; aveva dentro di sé molto forte il senso dell’amore, della gloria letteraria, della felicità. Proprio per questo, quando poi si trova di fronte alla realtà vera, che è sempre limitante e frustrante, ne rimane talmente deluso da soffrire di un senso di depressione. Questo stato inizia quando è ancora giovanissimo, ma mai diventerà un misantropo (=chiuso ai rapporti umani), come lui stesso dichiara nello “Zibaldone”, diario intellettuale dove scrive le sue riflessioni di tutta la vita.
Riesce a rompere diverse gabbie che avrebbero potuto soffocarlo: quella di una famiglia rigida, quella di un piccolo centro non certo stimolante, quella di uno Stato arretrato e limitante. Per questo lo si può definire il “grande provinciale”.
Ci sono tre fasi nella sua formazione intellettuale:
1. una fase di erudizione, cioè di preparazione culturale, quando frequenta la biblioteca di suo padre.
2. una fase in cui scopre il bello, la poesia:
tra il 1818 e il 1821, fallito il tentativo di fuga, Leopardi scrive alcuni capolavori, i “Piccoli Idilli”, dove “Piccoli” indica che sono stati scritti da giovane (più avanti scriverà i “Grandi Idilli”). Gli Idilli nella letteratura classica sono componimenti poetici in cui il paesaggio è un elemento centrale, gli Idilli di Leopardi parlano di paesaggi interiori. Quando scrive “I Piccoli Idilli” ha ancora delle illusioni: l’amore, la speranza di liberarsi dall’ambiente limitante in cui vive, la voglia di scoprire il mondo, la gloria letteraria.
L’”Infinito”
L’”Infinito” fa parte dei “Piccoli Idilli” ed è il suo componimento poetico più famoso.
Leopardi aveva l’abitudine di andare su un colle vicino a casa sua ad ammirare il panorama, ma una siepe gli impediva di vedere per un lungo tratto l’orizzonte. Il suo spirito, proprio a causa di tale impedimento, desiderava oltrepassare quel limite. Questo sentimento di infinito gli causa nel cuore una “profondissima quiete”. Fino a questo punto c’è un sentimento dell’infinito spaziale, cioè relativo allo spazio.
Poi c’è il vento che passa tra le foglie e questa sensazione uditiva gli fa pensare al suono del momento presente, dell’età attuale e alle “morte stagioni”, cioè a tutte le ere del passato. Percepisce così il senso dell’infinito temporale, dell’eternità, e tutto ciò non gli procura panico, ma gli sembra un dolce naufragio (=affondamento di una nave).
Questa poesia non ha aspetti spiritualisti, ma è una poesia di base sensistica, infatti parte da sensazioni fisiche, da ciò che Leopardi vede, da ciò che sente.
PARAFRASI
Mi è sempre stato molto caro questo solitario (“ermo”) colle,
e questa siepe che per un lungo tratto
esclude(=toglie, impedisce) lo sguardo (“il guardo”) del più lontano orizzonte.
Ma stando qui seduto e ammirando il paesaggio,
mi immagino (“io nel pensier mi fingo”) spazi senza fine (“interminati”, senza termine),
e silenzi sovrumani, e quiete profondissima; per cui (“ove”) per poco
il mio cuore non si spaventa. E quando il vento
sento passare tra queste piante, io quell’infinito
silenzio (che mi ero immaginato poco prima)
lo paragono a questa voce: e mi viene in mente l’eternità (si passa ad una sensazione temporale),
le ere passate, e la stagione (=l’era) presente e viva, e il suo suono. Così tra questa
immensità (spazio e tempo infiniti) il mio pensiero annega, si abbandona:
il naufragare in questo mare mi dà un senso di dolcezza.
Nella prima metà del componimento troviamo sensazioni visive che portano il poeta a pensare ad un infinito spaziale, nella seconda parte le sensazioni sono uditive e conducono ad un infinito temporale.
Ci sono diverse parole che rimandano all’idea dell’infinito: “orizzonte”, “interminati”, “sovrumane”, “profondissime”, “infinito”, “immensità”, “naufragar”.
Il pensiero che immagina e ricorda è reso da: “…e sovrumani silenzi, “e profondissima quiete…”, “…e mi sovvien l’eterno, e le morte stagioni, e la presente e viva e il suon di lei…”.
In questo componimento ci sono diversi enjambmant:
da tanta parte / dell’ultimo orizzonte
interminati / spazi
sovrumani / silenzi
quiete / io nel pensier mi fingo
il vento / odo stormir
quello / infinito
a questa voce / vo comparando
questa / immensità.
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